Cambiare=perdere. L'equazione paralizzante dello status quo e il test dell'inversione per smontarla.
I bias cognitivi sono delle tendenze, delle distorsioni. Come il bias dello status quo che riteniamo particolarmente interessante perché possiamo, spesso, trovarlo agito nei nostri clienti (e forse anche in noi stessi?).

In un post pubblicato nella nostra pagina Facebook (e che potete rileggere qui https://www.facebook.com/eskill.it/photos/a.976228109159687/1777342302381593/?type=3&theater) abbiamo parlato dell'effetto alone, ossia di quel bias cognitivo, di quella distorsione che ci porta a generalizzare una caratteristica o qualità di un oggetto o di una persona. Costrutto che spesso mettiamo in campo e che, nella nostra professione di counselor, dobbiamo sempre riconoscere per evitare errori che possano compromettere la funzionalità e l'efficacia del colloquio.
Oggi ci occuperemo di un altro bias, una distorsione che potremmo incontrare nei nostri clienti e che se non gestita o riconosciuta potrebbe crearci delle frustrazioni: il bias dello status quo, l' errore cognitivo che consiste nel preferire la situazione attuale rispetto ad altre possibili. Una resistenza al cambiamento! Che cosa succede quando agiamo questo bias? Semplice: la situazione attuale che stiamo vivendo viene presa come punto di riferimento, e qualsiasi cambiamento è considerato una perdita. E' chiaro come tutto questo non avvenga in termini oggettivi, (ossia quando un cambiamento porterebbe solo a ulteriori problemi), ma si verifica generalmente in condizioni di incertezza o in presenza di fattori di varia natura da considerare. Lo sappiamo: le decisioni non le prendiamo solo in base a ragionamenti logici e analitici ma anche grazie ad una forte componente emotiva. Ed è proprio qui che agisce il bias dello status quo. Razionalmente ci diciamo alcune cose, ma poi continuiamo a privilegiare lo stato attuale. Perché? Nella valutazione ci concentriamo più sulla perdita che non sui possibili guadagni: spostiamo e concentriamo l'attenzione su ciò che andrò a perdere introducendo il cambiamento e non ci curiamo di ciò che invece è la "dote" che il cambiamento ci farà guadagnare. Un esempio? Continuiamo a rimanere invischiati in una relazione (scegliete voi di che natura) che non ci soddisfa perché comunque ci sono dei vantaggi che non siamo sicuri di trovare in qualcosa di diverso o sconosciuto. E' il nostro spirito conservatore (quante volte ci lamentiamo per la delusione ricevuta, per esempio, dalle promesse mancate del nostro partito politico ma alle prossime elezioni saremo pronti a ri-votare per lo stesso schieramento?) che ci porta a maturare convinzioni in questo caso "radicanti", che ci fanno mettere radici nella situazione di sempre. E iniziano i "beh, tutto sommato non è così male...", "sì è vero può non essere conveniente però se cambio...". Vi immaginate in un colloquio di counseling in cui le state tentando tutte (le strade) per far vedere al cliente nuove possibilità, nuovi "guadagni" e lui continua a riportare la sua attenzione su ciò che perde? Frustrante? Un pochino. Ma attenzione! Non stiamo parlando di trovare la capacità di stare in una situazione che non si può cambiare (e quindi come counselor, per esempio, lavorerò con il cliente nel trovare i punti positivi della situazione attuale per gestire eventuali stati emotivi disfunzionali) ma di un altro meccanismo di distorsione... Qui la possibilità di cambiare c'è (e magari il cliente ha anche dichiarato di "voler cambiare"), semplicemente non la si vede per il pre-giudizio, la distorsione che si è creata dentro di noi.
Come fare? Con il test dell'inversione. Quando riteniamo di dover mutare una situazione ma ci scopriamo più concentrati sugli effetti deleteri di un'eventuale scelta di cambiamento, proviamo a immaginare e valutare una scelta analoga ma contraria. Se anche questa ha conseguenze negative, allora perché la scelta iniziale non può avere invece effetti positivi?