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Il Counseling come spazio di parola

La violenza di genere mina l'autostima della donna. Il Counselor può essere di aiuto in una situazione del genere? La risposta è sì. Il modo ce lo spiega Beatrice Elena Solcia che ha svolto un tirocinio in un Centro Antiviolenza.

Beatrice ha iniziato la Scuola di Counseling nel 2019 e l'ha terminata a dicembre 2022. L'abbiamo incontrata in una calda primavera inoltrata: in quel periodo era a casa in maternità. Mamma di due bambini, uno di pochi mesi, voleva avvicinarsi al counseling perché lo riteneva uno spazio per se stessa, uno spazio per potersi esprimere e per dare voce ad un eventuale futuro diverso ma anche ad una Beatrice diversa. La parola per Beatrice è importante: durante il suo triennio ha sempre misurato con garbo le sue parole, i suoi commenti, le sue riflessioni; ha dato voce al suo percorso cercando le parole corrette, il colore giusto. E' cambiata molto in questi anni percorrendo un cammino preciso e sempre più chiaro. Ha messo a fuoco ciò che era importante per lei, che la faceva stare bene. Le parole sono importanti per Beatrice: fanno parte del suo lavoro attuale, degli studi che ha scelto di proseguire e del tirocinio che ha svolto per diventare Counselor. Un tirocinio che l'ha messa in contatto con il suono dei passi delle donne che si allontanano, o tentano di farlo, da una situazione di violenza e dolore. Un suono che ha bisogno di uno spazio per amplificarsi, per farsi sentire...e dove anche il counseling, con la giusta supervisione, può aiutare. Beatrice oggi ci racconta proprio quello spazio che ha saputo creare con la parola in un centro antiviolenza.


D: Beatrice la tua tesi racconta del tuo lungo tirocinio presso un centro antiviolenza: ci racconti la tua esperienza?

R: Certo, con piacere. Ho effettuato un tirocinio in un centro antiviolenza da gennaio 2021 a maggio 2022. Il prerequisito era infatti quello di fare almeno cinquecento ore, affiancata da un team di psicologhe con le quali avrei lavorato e dalle quali ho appreso moltissimo. A portarmi a scegliere questa esperienza, lunga e impegnativa, sono state diverse ragioni: tra queste, il desiderio di lavorare in un contesto dove a essere aiutate fossero le donne che vivono situazioni di violenza da cui non riescono a emergere senza un supporto. Le forme più spesso subite nei casi seguiti al centro antiviolenza riguardano: violenza psicologica, economica, fisica, sessuale, stalking, molestie e sfruttamento. Telefono Donna, questo il nome del CAV che ha varie sedi nella zona di Monza e Brianza afferenti alla Rete Artemide, offre il primo contatto proprio grazie a una semplice telefonata. Le operatrici di accoglienza si occupano fin da subito di ascoltare la donna. Dopodiché, se la situazione viene valutata idonea, la si invita a fissare un appuntamento presso il centro, dove verrà presa in carico e seguita in un percorso di supporto, la cui cadenza e durata variano molto a seconda del caso. L’iter prevede, in certe situazioni, anche un percorso terapeutico di alcune sedute. Il centro dispone di un avvocato che affianca la donna in caso di denunce e iter processuali; offre consulenza per il collocamento lavorativo; collabora costantemente con i servizi sociali. E’ inoltre in costante contatto con le forze dell’ordine e i pronto soccorso, da cui provengono numerose segnalazioni. Gestisce il collocamento presso case rifugio a indirizzo protetto, nei casi in cui si rende necessaria la protezione per la donna ed eventuali figli. Il gruppo di Telefono Donna è quindi composto da psicologhe, psicoterapeute, counselor, avvocati, tirocinanti, volontarie. Il lavoro di squadra che si concretizza ogni giorno permette l’attivazione di una forte rete di sostegno dove ogni professionalità – volutamente declinata al femminile- viene coinvolta, spesso anche contemporaneamente.


D: In che modo un counselor trova una collocazione in un centro antiviolenza?

R: Non è facile per me rispondere a questa domanda, perché mi è stato subito chiaro che le tematiche trattate e i colloqui da gestire erano pertinenza di altre aree di supporto. Il CAV dove inoltre ho svolto io il tirocinio non aveva, oltre a me, altri counselor in sede. Questo è stato tuttavia anche sfidante, la mia tesi infatti si è svolta soprattutto su questa tematica: come può un counselor essere supportivo in un contesto in cui la relazione d’aiuto necessaria chiama in causa altre figure professionali? Quello che posso dire è che ho sfruttato appieno le mie competenze per i primi colloqui, quelli in cui la donna accede al centro e da cui si comprende quale tipo di percorso le si può offrire. Ho mantenuto le chiamate con le donne che avevano concluso il loro percorso ma per le quali era preferibile rimanere in contatto con il centro, anche per rendere possibile il monitoraggio di situazioni delicate e precarie. Ho effettuato i recall verso le donne che avevano abbandonato percorsi avviati (il tasso di abbandono è purtroppo altissimo) per comprendere meglio cosa le avesse spinte a farlo e se ci fossero margini per riprendere. La parte più importante del mio tirocinio sono stati i colloqui in presenza con le donne che ho seguito, inizialmente supportata dalle colleghe e successivamente in autonomia (sempre con la possibilità di supervisione). Con loro ho potuto sviluppare un percorso di crescita e riscoperta di sé che è stato un primo importantissimo passo verso l’uscita dal tunnel della violenza, che mi auguro stia proseguendo per ognuna di loro -che porto nel cuore- nel migliore dei modi.


3. Hai accompagnato molte donne e hai sentito molte loro storie al centro antiviolenza: c’è un tratto comune per le vittime di violenza?

Il tratto comune che ho riscontrato nelle donne, che ho avuto la fortuna di conoscere e accompagnare nel più bello dei viaggi, quello dell’incontro con se stessi, è stato il disamore. Stare in una situazione di violenza reiterata, chiamare ‘amore’ una relazione maltrattante, non riuscire a porre fine a legami che causano immani sofferenze… sono sintomi innanzitutto di una mancanza di amore per sé. A questo si accompagna di conseguenza un voler bene all’altro in un modo distorto, e il ritrovarsi a vivere relazioni altamente disfunzionali. Ricevere violenza diventa così espressione di inconsapevolezza, di una non conoscenza di sé che ha radici molto lontane e appartiene a copioni reiterati. Le origini di questa sofferenza risalgono all’infanzia, alle dinamiche studiate da moltissimi teorici, tra cui su tutti John Bowlby nella Teoria dell’attaccamento, e alla conseguente genesi di modelli operativi interni che ci guidano nella vita e nelle relazioni. Il primo passo dunque è tornare, o in moltissimi casi imparare, a volersi bene. E già la telefonata per prendere contatto con il centro lo è: pensare a sé, chiedere aiuto, ripartire da quel fondo che - una volta toccato- può essere la base da cui risalire. Grazie al tirocinio ho quindi potuto dar forma a un interesse nato a livello teorico e poi messo in pratica, con l’intento di indagare come il counseling potesse essere proficuo anche nel contesto dei centri antiviolenza. Oggi ho dentro di me un grande “grazie”, che va in tante direzioni: al percorso fatto in E-Skill che mi ha aperto orizzonti nuovi, all’esperienza in Telefono Donna che mi ha fatto comprendere come volessi proseguire negli studi (ora frequento la Magistrale in Psicologia Clinica!) e soprattutto alle donne che ho incontrato in profondità: nella forza e nella tenacia con cui cercano di emergere dalle loro storie di violenza, ho sentito un inno alla vita, ho percepito un amore autentico, ho sentito un abbraccio dato -finalmente- a loro stesse.


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